Il dovere di mantenimento dei figli da parte dei genitori ha subito una trasformazione sin dalla riforma attuata con la legge 8 febbraio 2006 n°54, attraverso l’introduzione di
una disposizione ad hoc per i figli maggiorenni nell’articolo 155-quinquies del Codice civile.
La norma, dopo l’abrogazione a seguito dell’introduzione dell’art. 106 del d.lgs.28 dicembre 2013 n°54, è stata trasposta nell’art. 337-septies c.c. da esso coniato.
Sono quindi vigenti diverse fattispecie di adempimento al dovere di mantenimento verso il figlio, a seconda del fatto se quest’ultimo sia minorenne (in tal caso si applica
l’art. 337-ter), o maggiorenne non indipendente economicamente (in questo caso trova invece applicazione il sopracitato art. 337-septies c.c.).
Focalizzando l’attenzione in merito ai figli maggiorenni, la norma, al primo comma, recita: “il Giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni
non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”. All’interno della fattispecie de quo, è presente un elemento indeterminato, dalla cui
soddisfazione discende il diritto all’assegno per il figlio e, di conseguenza, l’obbligo per il genitore di corrispondere lo stesso; si tratta della “non indipendenza economica”.
Inoltre, determinante è l’uso del verbo “può”, che accanto al criterio generale ed usuale della “valutazione delle circostanze”, indica una mera possibilità.
In materia, la recente sentenza della Corte di Cassazione, n°17183/2020, assume grande rilevanza.
Nel caso di specie, i Giudici hanno respinto il ricorso di una donna che aveva impugnato una Sentenza della Corte d’Appello di Firenze, la quale aveva statuito la
revoca dell’assegno del figlio e dell’assegnazione della casa familiare. La Suprema Corte, con riguardo alla ritenuta autonomia del figlio, ha sottolineato un’evoluzione del diritto vivente, evoluzione che tiene conto del mutamento dei tempi e richiama in modo sempre più ferreo il principio dell’autoresponsabilità. Se, infatti, in precedenza sussisteva il riferimento ad una raggiunta “capacità del figlio di provvedere a sé con appropriata collocazione in seno al corpo sociale” 1 , ed alla “percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita” 2 , le mutate condizioni del mercato
del lavoro e la non infrequente sopravvenuta mancanza di autonomia “di ritorno” a volte in capo anche allo stesso genitore, hanno ormai indotto a ritenere che l’avanzare dell’età abbia notevole rilievo nel merito di una “funzione educativa del mantenimento” e del “tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società”
Alla luce dei cambiamenti epocali, anche del mercato del lavoro, che richiede capacità di spostamento, iniziativa ed autonomia, la Suprema Corte evidenzia la necessità di passare dal principio del “diritto ad ogni possibile diritto” al concetto di dovere:
dall’assistenzialismo all’autoresponsabilità.
È quindi fondamentale l’attivazione del figlio nella ricerca di un lavoro, che gli permetta di assicurarsi un autonomo sostentamento, in attesa dell’auspicato raggiungimento di un impiego aderente alle proprie aspirazioni soggettive. Infatti, come sottolineato nella sentenza in commento, non è pensabile che “il figlio, di converso, possa pretendere che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in vece sua, il genitore”. Con il raggiungimento della maggiore età, e conseguentemente l’acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, la legge fonda l’estinzione dell’obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni.
La Suprema Corte sottolinea come “al fine di giustificare l’obbligo economico in favore dei figli maggiorenni, a carico dei genitori, ormai non più titolari di poteri disciplinari e rappresentativi, è necessaria la concreta condotta di impegno nella personale formazione, o, dove terminata, nella ricerca di un impiego”. Sostanzialmente, il limite all’obbligo di mantenimento del figlio si fonda nel raggiungimento della maggiore età, “salva la prova, che il diritto permanga per l’esistenza di un percorso di studi, o di un percorso formativo, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca
comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri l’indipendenza economica”. In mancanza di questa prova, il figlio maggiorenne non ha più diritto al mantenimento da parte dei genitori.
La Corte di Cassazione focalizza ulteriormente l’attenzione sul dibattuto tema dello “studio”, riconoscendo come sia del tutto corretto che tale opportunità venga garantita
dai genitori. Tuttavia, decorso un lasso di tempo sufficiente dal conseguimento del titolo di studio, il figlio non avrà più diritto al mantenimento, dal momento in cui il soggetto ritenga di aver concluso il proprio percorso di formativo e non abbia l’intenzione di proseguire, tenendo conto “della durata ufficiale degli studi e dal tempo
mediamente occorrente ad un giovane laureato, in una data realtà economica, affinché possa trovare un impiego”. Da ciò, si può desumere che un soggetto che prosegue negli studi in modo serio, con diligenza e passione, meriterà maggior tutela rispetto a chi si “trascini stancamente in un percorso di studi non proficuo”.
Concludendo, si sottolinea come l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento sia a carico del richiedente – il figlio maggiorenne – il quale non solo dovrà dimostrare la mancanza di indipendenza economica, ma anche di essersi impegnato nella propria preparazione professionale e di aver concretamente operato nella ricerca di un lavoro.
Infatti, come predetto, una volta raggiunta la maggiore età si presume l’idoneità al reddito, presunzione che, per essere superata, richiede la prova delle fattispecie che
integrano il diritto alla continuità del mantenimento. Di conseguenza, l’onere della prova sarà sicuramente più lieve in prossimità della maggiore età, e più severo con il passare degli anni.
Avv. Sergio Terzaghi
Dott.ssa Annalisa Premazzi
1 Cass. 10 aprile 1985, n°2372.
2 Cass. 26 gennaio 2011, n°1830.
3 Cass. 20 agosto 2014, n°18076.
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